Nonostante alcune recenti misure di allentamento delle restrizioni, la politica cinese zero covid per il contenimento dell’epidemia è ancora estremamente rigida rispetto alle misure messe in atto dalla gran parte dei paesi Occidentali e non. Come riporta SkyTg24, «in base alle nuove regole annunciate dalla Commissione sanitaria nazionale, i viaggiatori in Cina dovranno trascorrere cinque giorni in un hotel o in una struttura di quarantena governativa, seguiti da altri tre giorni di isolamento in casa mentre le regole attuali prevedevano 10 giorni di quarantena (con una settimana in hotel e poi tre giorni a casa). La Cina inoltre smetterà di andare in cerca e di identificare i “contatti secondari” pur continuando a identificare i contatti stretti».
Se in una prima fase della pandemia la politica zero covid poteva sembrare in fin dei conti razionale se considerata nell’ottica della tutela collettiva, ad oggi sembra essere una misura abbastanza irrazionale se paragonata alle aperture generalizzate che ci sono state nella maggior parte dei paesi del mondo. Diventa quindi importante provare a dare una chiave di lettura su cosa spinge il governo cinese a mantenere rigide le misure di contenimento dei contagi. Ho provato con questo articolo a darne tre.
Secondo un chiave di lettura geopolitica/realista, il presidente Xi Jinping ha sin dal primo giorno di pandemia rappresentato la lotta contro il covid-19 come una “guerra di popolo” dove gli interessi della collettività sarebbero dovuti essere anteposti a qualsiasi interesse o libertà individuale segnando una linea di demarcazione netta rispetto all’approccio occidentale. Tale impostazione è stata estremamente efficace nella prima fase della pandemia durante la quale la Cina è oggettivamente riuscita a limitare notevolmente il numero di morti e contagi rispetto a quanto accadeva in Occidente – soprattutto negli USA durante la presidenza Trump – dove si “moriva come mosche”. Il contenimento tramite la politica zero covid tuttavia, non è stato dunque in questi due anni solo uno strumento di contrasto alla diffusione del virus ma anche, e soprattutto, uno strumento di soft power utilizzato a più riprese da Xi per affermare la superiorità del modello socioeconomico cinese – e dunque della pianificazione – rispetto a quello degli attori occidentali. Il colosso asiatico, oltre ad aver efficacemente contenuto l’espansione del virus, è riuscito anche ad ottenere una prestazione economica preminente rispetto ai suoi competitors affermandosi come potenziale leader globale nella lotta al covid-19. Anche se la situazione attuale nel mondo non è minimamente paragonabile per numero di morti e contagi alla prima fase della pandemia, fare un improvviso passo indietro e modificare radicalmente la politica zero covid vorrebbe dire per Pechino allinearsi alle posizioni occidentali e abdicare di fatto alla propria aspirazione di guida responsabile globale nel contrasto alla pandemia.
Seguendo invece una chiave di lettura economica, in un contesto di estrema inflazione in Occidente a causa degli effetti derivanti dalla guerra in Ucraina (Europa +10,6%, USA 7,7%), la Cina mantiene una percentuale d’inflazione al 2,5%, percentuale estremamente positiva per la teoria economica in quanto ritenuta essere sinonimo di “salute del sistema economico”. Infatti, mentre i tassi d’interesse crescono nel resto del mondo per contrastare l’inflazione limitando la circolazione di moneta a spese delle fasce più deboli di popolazione, in Cina restano invece invariati. Secondo Milano Finanza l’inflazione resta bassa anche a causa dei prezzi di cibo e beni non alimentari che sono diminuiti a causa dei lockdown in molte grandi città. Possibile che la politica zero covid si sia trasformata da politica di contenimento del virus ad uno strumento di regolazione economica per sfuggire dal processo inflazionistico globale di impoverimento generale?
Infine, si può evidenziare anche una chiave di lettura strutturale. La Cina, nonostante sia la seconda economia mondiale in termini di PIL, rientra secondo l’ONU ancora nella categoria di paese in via di sviluppo se considerato il reddito pro capite e la qualità dei servizi pubblici. Infatti in questi termini la struttura socioeconomica cinese è ancora distante dalle economie occidentali. Il governo cinese, soprattutto sotto la guida di Xi, sta provando ad implementare il cosiddetto “salario sociale di classe” ovvero tutta una serie di servizi pubblici garantiti dallo Stato che andranno ad implementare il salario dell’individuo aumentandone di fatto il salario reale. Tuttavia, se consideriamo ad esempio il sistema sanitario nazionale cinese, ci si rende subito conto che la portata, la copertura e la qualità non siano in alcun modo comparabili ai sistemi sanitari occidentali, soprattutto a quelli delle economie che hanno avuto storicamente una grande sensibilità per lo sviluppo del welfare state come, ad esempio, l’Italia. Questa carenza strutturale del modello cinese porta a pensare che un cambio radicale e repentino della politica zero covid potrebbe portare ad un collasso del sistema sanitario e quindi ad un aumento esponenziale del numero di contagi e morti.
Pertanto, se anche una sola delle tre chiavi di lettura sopracitate fosse vera, Pechino non tornerà ad una situazione pre-pandemica nel breve periodo, anzi, la riapertura sarà graduale ed estremamente lenta nonostante l’economia sia in forte rallentamento e le persone inizino a manifestare le proprie insofferenze. Sebbene la terza ipotesi tra quelle sopracitate sembrerebbe essere quella più accreditata, in una congiuntura globale così delicata sia per l’economia che per le relazioni internazionali non sono da escludere tuttavia altre motivazione che esulano oggi da qualsiasi tentativo d’analisi.
Nicolò Di Luccio per Liberopensiero
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